"Io anelo alla mia terra, nella cui polvere si sono consunte le membra e le ossa dei miei. Ricordo la Sicilia, e il ricordo viene dal dolore che mi travaglia. Ma se fui bandito da un paradiso come posso io darne informazioni"

lunedì 15 giugno 2009

Un filo che non si può spezzare.

Posso sentire i rumori della campagna da questa terrazza. I rumori dell'estate, qualche ranocchio gracidare nel rivolo d'acqua qui davanti, l'impianto d'irrigazione del mio vicino, il frinire dei grilli. Sembra perfetto per poter tornare a scrivere senza distrazioni.
Vivere qui assume tutt'altro valore in queste giornate estive. L'allergia che ha accompagnato la mia primavera sta quasi convincendosi ad andar via, lasciandomi godere tutti i vantaggi.
Tuttavia credo di essere antropologicamente imperfetto per vivere in quest'ambiente, di essere costruito per essere circondato da tutt'altre essenze.
Non potrei da contadino vivere tra i campi piangendo e starnutendo l'intera giornata. Il mio raccolto andrebbe in malora velocemente. L'allergia si aggiungerebbe ai motivi che mi terrebbero comunque lontano.
E' sempre stato cosi. Sono sempre scappato dalle fatiche dei campi, fin da piccolo. Quando mio padre mi portava con se, più per compagnia, a dire il vero, che per cercare aiuto, mi annoiavo a morte e non vedevo l'ora di scappare a casa, tornare a rincorrere un pallone per i vicoli del casale.
Ne ero insofferente, ed allo stesso tempo sentivo forte il legame a quei luoghi e a quegli odori. In fin dei conti la mia è sempre stata, chissà per quanti secoli indietro, una famiglia di contadini, artigiani della terra. La cui vita era scandita dai raccolti, dalle semine, dalle mietiture, che di tanto in tanto adesso ritornano nei racconti dei miei nonni. Storie semplici e bellissime, che un giorno dovrei decidermi a raccontare.
E' da li che vengo. Da "cittadino" trascorrevo i miei fine settimana tra quelle case di campagna, tra l'abbeveratoio al centro del paese, la fontanella dove andar a prendere l'acqua da bere, i vecchi seduti al "fresco" a passar la giornata e i più giovani tornare dai campi a sera, fermandosi a scambiare i commenti sulla giornata di lavoro.
Ancora oggi, tornando li, sempre tutto cosi simile a se stesso. Le case, per fortuna, non si sono mai svuotate del tutto, chi se ne è andato ha lasciato il posto a nuovi arrivi che hanno ridato vita a quello che sembrava destinato a sparire.
Non poteva che restarmi nelle vene quell'atmosfera.
Era un desiderio di qualche tempo fa poter restaurare ciò che li abbiamo, e magari fare qualcosa in più. Un'altra utopia da aggiungere alla mia valigia già troppo carica di sogni.
Intanto mi ritrovo qui ogni sera ad annaffiare questo piccolo pezzo di terra che trovo davanti casa, questo piccolo orto che con mio padre abbiamo messo su nei giorni in cui mi ha fatto compagnia. Le piante di pomodoro già profumano, le lattughe, gli spinaci sono prossimi al raccolto.
E cosi, seduto in questa terrazza, sotto questo cielo, mi piace pensare a quel bimbo che restava sotto l'albero a guardare suo padre dare di zappa su quel podere, ed al padre adesso guardare quel filo non spezzarsi mai, pensare a quel seme che non sapeva allora se mai avesse dato dei frutti.

2 commenti:

Emanuele ha detto...

Dai, se trovi il tempo è bellissimo coltivare la terra... e mangiare i frutti del proprio lavoro! Da una soddisfazione enorme, e poi a me il cibo casereccio apre una fame incredibile! :-D
Ciao,
Emanuele

Mauro Caruso ha detto...

Si il tempo lo sto trovando, e comincia a dare i suoi frutti! Ti mando una cesta?

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